Sul finire dello scorso anno il Ministero della Transizione Ecologica dava il via libera a nuove trivellazioni per la ricerca di idrocarburi ed era anche stata lanciata l’idea di attivare nuovamente alcuni pozzi già presenti nel Mar Adriatico. Si tratterebbe di una scelta economica per la differenza di prezzo al metro cubo di gas importato dall’estero (a dicembre circa 70 centesimi, quotazione massima) o estratto (sempre a dicembre circa 5 centesimi al metro cubo)
Il consigliere Regionale PD, Arturo Lorenzoni, aveva affermato che non avrebbe senso, economicamente, riattivare i vecchi pozzi nel Mare Adriatico. Le riserve stimate nell’area del Delta del Po, estraibili nei prossimi trent’anni, coprirebbero solo per un paio di anni il consumo attuale italiano. Un quantitativo che diminuirebbe le importazioni ma che non renderebbe l’Italia indipendente dai paesi fornitori.
Il risparmio sarebbe quindi limitato ma il fondale potrebbe subire danni a seguito del fenomeno della subsidenza, ha affermato il consigliere, ricordando che quanto i pozzi in Adriatico erano attivi i terreni costieri di Veneto ed Emilia Romagna si erano abbassati anche di decine di centimetri. La ripresa dell’attività dei pozzi potrebbe portare tali territori a correre un rischio che non è giustificabile.
Il rapporto pubblicato dalla International Energy Agency Net Zero 2050 ha affermato che la transizione ecologica non consente di investire in alcun nuovo pozzo per l’estrazione di petrolio o di gas, anche in quanto il Governo si è assunto l’impegno di non procedere con ulteriori investimenti nei combustibili fossili.
Per quanto riguarda l’occupazione che dall’apertura o riapertura dei giacimenti verrebbe generata, altrettanti posti di lavoro verrebbero creati investendo nella creazione di impianti eolici o solari.
Ora, secondo Lorenzoni, si deve guardare alla reale sostenibilità degli investimenti per la ripresa economica, indirizzandoli dove la stessa può avere una prospettiva in un lungo periodo.
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